Vetrina Vesuvio

martedì 10 marzo 2020

San Gennaro non dice mai no - Giuseppe Marotta

San Gennaro non dice mai no è una raccolta di racconti scritti da Giuseppe Marotta in occasione di un suo viaggio nella città natale, Napoli, nel 1947 e pubblicata l'anno successivo.
La lettura mette in evidenza una Napoli appena uscita dagli orrori della guerra e caratterizzata appunto da tutta una serie di problemi di sopravvivenza che, peraltro, assumono aspetti molto particolari e interessanti.
L'autore manifesta il proprio attaccamento alle proprie origini delineando piacevolmente parecchi personaggi caratteristici della città partenopea. In "San Gennaro non dice mai no", che segue di poco "L'oro di Napoli" (1947), Giuseppe Marotta racconta il suo primo ritorno nella città nel dopoguerra: passata l'euforia della facile ricchezza, del mercato nero, dello sfrenato affarismo, Napoli non è più "milionaria", e ancora una volta si ritrova con il suo antico dramma: la miseria, la pazienza, il coraggio della sopportazione, la catturata assuefazione ai patimenti. Ma alla gente dei vicoli, ormai ritornata e rassegnata alla sua perenne condizione, San Gennaro non dice mai no e le regala, almeno, la rara e preziosa forza di saper aspettare.
Editore: Bompiani
Anno edizione: 1953
Pagine: 246 p.
s-l400
A più di settant’anni dalla prima edizione, torna in libreria, il 19 settembre 2020, San Gennaro non dice mai di no di Giuseppe Marotta per la #Polidoroeditore.
Allora come allora, nel marzo del 1947, Napoli, eccettuandone via dei Mille, via Tasso, il viale Elena e poche altre arterie di Chiaia di San Ferdinando del Vomero, era tutta un rione popolare. Napoli era allora un vicolo solo, un "basso" solo, una botteguccia sola. (p. 29)
Non importava vendere molto o vendere poco o non vendere affatto: bastava che si tentasse di vendere. (p. 29-30)
Napoli, primissimo dopoguerra. Fame, speranza, miseria e nobiltà. I vetturini si portano a spasso fra loro per non disperare, turisti non ce ne sono infatti. E se capita uno sprovveduto cliente, gli fanno pagare per dieci. Perché solo con dieci corse si ha denaro per cenare, non si può fare altrimenti. I borseggiatori invece, spesso malnutriti bambini vestiti di stracci, non lasciano scampo alle penne stilografiche. Ma se una vittima li impietosisce, son pronti a restituire il maltolto. I pescatori lavorano indefessi, anche se i guadagni non arrivano a far comprare il pane per l'intera famiglia, che di prassi ha più di cinque figli. Il mercato nero impazza e spopola, si vende tutto e di più, il contrabbando è una regola di vita, come se ci fosse un miracolo economico in corso. Tutti vendono, pochi comprano, però. Ma non per rispetto o timore della legge, ci mancherebbe. Perché il mercato illegale è tutt'altro che scuro o nascosto, è fatto alla luce del sole, ad ogni angolo, in ogni quartiere, è una necessità, non una ribellione oppure un'attività illecita solo per il gusto di infrangere la legge. E poi il fascino eterno del mare, le trattorie tipiche, piene di sapori e colori, le abitudini consolidate e quelle portate dalla guerra e dagli occupanti/liberatori anglo-americani. Un microcosmo dai toni vivaci, animato, animoso, ripieno di vita vissuta, dove l'amarezza viene dissipata nella speranza che arrivi o torni San Gennaro. Il quale appunto, non può dire di no, altrimenti non sarebbe il santo di Napoli…
Lasciatemi dire che a Napoli i Santi, dal supremo e volubile San Gennaro al distratto San Giuseppe, da Sant'Antonio che protegge Posillipo a San Pasquale che sorveglia attentamente Chiaia, non sono che autorevoli congiunti del popolo. Il napoletano ha San Luigi, Sant'Espedito e ogni altro Santo come a certi poveracci dei vicoli capita di essere imparentati con un insigne professore residente a via dei Mille. Questi poveracci descrivono orgogliosamente l'attività e i successi dell'eccezionale consanguineo, dicono: «E quello il commendatore ci è stretto cugino», solo per qualche consiglio o raccomandazione si permettono di disturbarlo, la verità è che si leverebbero il pane di bocca per accrescere il suo benessere. Così, o quasi, stanno le cose a Napoli tra il popolino e i Santi; ma sempre fede è, sempre amore. (p. 135)
 Sotto la scrittura ironica, sotto il ritmato e variegato tentativo di affresco di realtà eterogenee ma saldamente radicate ad un solo ed inimitabile luogo, si rintraccia la disperazione, il malcontento, i morsi della fame e anche della sete. Il tono scanzonato appena mitiga quello che è un panorama desolato, anche se i napoletani sono permeati da una irrefrenabile, atipica e tradizionale vivacità. E Marotta lo sa: “I napoletani inventano Napoli, si raccontano con qualche enfasi (...) trovano sollievo e consolazione in questo recitarsi”. Bozzetti certo, ma d'autore. Marotta inventa una lingua ed uno stile prettamente letterari, con un registro che non si fa mai schiacciare dal pathos o dalla retorica, minacce sempre presenti trattando tematiche come queste. E ne esce un libro godibile, il cui aspro contenuto è sciolto nella delicatezza di passaggi lirici, di tocchi poetici. Ingiustamente relegato a paraletterato, Giuseppe Marotta dunque rivela qualità inaspettate in questo volume del 1948, che come tutti i buoni libri non sente l'età.
Il vero mare di Napoli è quello esiguo e domestico di Santa Lucia, di Coroglio e di Posillipo. Consuma Castel dell'Ovo e il Palazzo Donn'Anna, bruca il muschio delle vecchie pietre, sente d'alga e di sale come nessun altro mare. (p. 42-43)

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